In questi giorni la compagnia con cui ho la fortuna di collaborare da un anno e mezzo e la sua ultima opera teatrale, Agàpe – ti manca chi c’è, t’innamori di chi manca sono state al centro di una polemica rovente. L’accusa, non impedire a chi ne fa parte, soprattutto se ”non è normodotato” (sic) di dire o farsi dire, in scena, ”merda”, ”cazzo”, ”va’ in culo”; l’obiettivo, ”che le risorse per simili rappresentazioni provengano solo ed esclusivamente da privati”. Insomma, se questi ”non normodotati” vogliono esprimersi pubblicamente come più gli pare e piace, almeno che non li si incoraggi, non li si finanzi, non li si sostenga (non dico ”non li si paghi” perché non ci paga nessuno). Sembra medioevo, invece lo è. Livorno ha risposto con grande calore e sostegno, suscitando un dibattito partecipatissimo sui due quotidiani locali, che continua tutt’ora. Quella che segue è la mia testimonianza: che cosa è – chi è – Mayor Von Frinzius, e perché è bene che questa esperienza continui e cresca.
Gli ultimi sono tanti, talmente tanti che i primi diventano sempre di meno. È così, forse perché a furia di essere di meno si ammalano di solitudine, quando un dito indica la luna rischiano non solo di non guardare la luna ma di non vedere nemmeno il dito. Senza luna, però, senza dita, senza mani, piedi, voci, corpi che si fondono si abbracciano si rincorrono, il mondo diventa molto triste, molto buio. Cupo.
A dispetto di ogni tristezza, un giorno oramai lontano nel tempo (anzi una notte: e sì, c’era la luna, luna piena), incontrai per la prima volta la compagnia Mayor Von Frinzius e rimasi a bocca aperta dalla meraviglia. Nell’aria le parole di una canzone popolare – “tu che sei diverso, almeno tu nell’universo” – e sul palco, montato in strada di fronte a un teatro chiuso (il che allora mi sembrò quanto meno simbolico), persone di ogni età – donne, uomini e sessualità in transito, con la pelle di ogni colore, chi in grado di muoversi perfettamente e chi faticava a seguire un percorso lineare, chi in grado di parlare e chi invece non ci riusciva – insieme intrecciavano dialoghi, formavano cori, si muovevano all’unisono o in dissonanza e raccontavano una storia fatta di giorni, paure, vittorie, fango e splendore. Alla fine dello spettacolo (Crudo crudele: un titolo lancinante) chiesi di unirmi a loro. Mi risposero che il laboratorio era aperto a tutti, gratuito e senza limitazioni di alcun tipo, “a patto che, una volta iniziato, ci assicuri la tua presenza con continuità”. Lo trovai giusto – se vogliamo costruire rapporti di fiducia e di affidamento reciproco dobbiamo sapere su chi poter contare, e quando – ma allora frequentavo Livorno sporadicamente e non mi era possibile. Nel corso degli anni ho continuato ad andare a vedere ogni spettacolo della compagnia, e ognuno più di una volta. Non c’era verso: la meraviglia restava la stessa, anzi, aumentava. Ho visto crescere le singole persone e il gruppo. Ho visto recitare con tanto di microfono (credete sia facile?) chi un tempo stentava a esprimersi a parole, ho visto muoversi con disinvoltura, di più, con armonia, chi una volta a malapena riusciva a farlo; ho visto sbocciare nella danza corpi che fino a quel giorno avevano arrancato, ho visto tutte quelle persone diventare una sola per poi tornare a riabitare la propria individualità. Ho visto una libera società di uguali (di uguali perché diversi, tutte, tutti!) dispiegarsi di fronte ai miei occhi e senza vergogna ho pianto di gioia per le loro conquiste che erano anche le mie: perché condividevo con loro il sogno di abbattere le barriere che ci separano, innanzitutto da noi stessi e poi dall’altro. Quella che vedevo accadere, scena dopo scena, era, come canta Fossati, la costruzione di un amore.
Sono dovuti passare molti anni prima che il destino mi portasse in pianta (quasi) stabile a Livorno. E così, un pomeriggio, trovai il coraggio di farmi viva – che bella pratica, “farsi vivi” – e da allora quella società di uguali mi ha accolta. Non è stato facile – non è facile. Si tratta, a ogni incontro, di riconoscere i miei limiti e impegnarmi a superarli. Mi sono vista, e saputa, goffa e in là con gli anni; ho dovuto affrontare le mie paure – quella di ferire e quella di essere ferita – e mettere in gioco la mia capacità, e la mia incapacità, di costruire una rete di relazioni che non impedisce di cadere ma che, quando si cade (e si cade, si cade! In tutti i sensi) attutisce il colpo e lo trasforma in energia. Si tratta di chiamare per nome le cose, e i sentimenti, senza girarci troppo attorno: senza abbellimenti, decorazioni, trucchetti. Quando è rabbia è rabbia, quando è frustrazione è frustrazione, quando è disagio è disagio. Ma quando la costruzione della scena – la costruzione dell’amore – regge; quando incontri l’altro che incontra te; quando ci si sostiene, accarezza, accoglie; quando ci si guarda e ci si vede e ci si riconosce per quel che si è; quando ci si ammette, come aprendo una porta e lasciando che l’altro entri, e ci si invita a esserci e rimanere; quando insieme si crea una presenza che è reciproca e attenta, quando si ha cura, l’uno dell’altra e l’altro dell’una; quando si comprende finalmente che tutto questo non avviene per magia ma grazie al lavoro (un lavoro che è pazienza e impazienza, coniugate da una forte adesione a un nucleo centrale che supera ciascuno e diventa noi), un lavoro non ancora riconosciuto come tale e quindi non retribuito ma nel quale intanto guadagni quella cosa ineffabile che si chiama crescita (sì, si può crescere anche se si sono superati da un pezzo i cinquant’anni), allora non c’è sforzo, non c’è fatica, non c’è impegno che pesi davvero.
Gli ultimi sono tanti e a volte sono brutti, sporchi e cattivi. Ma non darei via i fiori che ho visto nascere dalla merda in cambio dei diamanti da cui, com’è noto, non nasce proprio niente. Sono anzi convinta che la poderosa, fragrante fertilità della Compagnia Mayor Von Frinzius andrebbe coltivata dalle istituzioni della città che ha avuto la fortuna di vedersela spuntare sul selciato. I deserti sono certamente luoghi immacolati, privi di rifiuti e cattivi odori, e tra le dune sorgono lune inaudite: ma non ci sono dita a indicarle, non ci sono corpi a goderne, non ci sono occhi a moltiplicarne la luce.
Di questa luce, che è arte e cultura, comunità e progetto, ringrazio Lamberto Giannini e tutte le registe, attrici, attori, tecniche e tecnici di Mayor Von Frinzius. La strada da fare è ancora tanta e finché potrò, un passo alla volta, continuerò a percorrerla.