ADA L’IMPAVIDA – Sei / È fatta

“[La storia] viene riscritta giorno dopo giorno e come un’umile e santa rammendatrice riempie pian piano i vuoti.” Roberto Bolaño, I dispiaceri del vero poliziotto, trad. di Ilide Carmignani, Adelphi 2012

Via, anche questa è fatta. Son bell’e morta, ora, così che nulla mi fa più paura, però di storie da raccontare quelle ce n’è ancora. E non aver più paura è meglio, ché la lingua va sciolta e la testa un ha da pensa’ altro che a dire, senza fretta. Un’altra cosa che non ho più, la furia di andare sempre dietro a far qualcosa, ché io con le mani in mano, e che ci volete fa’, un ci sapevo stare. Ma un credete che a me e mi stava bene d’ave’ sempre una cosa da fare, come cuci’ o taglia’ o cucina’ o fa’ altre faccende, no: tra le mani, ve lo devo di’ – anzi, ve lo voglio di’ –, la cosa che mi è più piaciuto di tenercela è stata un libro.
Spero che mi crederete, perché e lo capisco che a pensa’ che un ho studiato vi sembra che un ci combina che legge era la mi’ cosa preferita, invece è vero. Perché dovrei dirvi bugie, che intanto un ne ho mai sapute di’ e poi m’importa assai di di’ bugie, oramai. Io ve la racconto com’è, se mi volete crede bene, altrimenti un ci combatto. Il mi’ babbo voleva farmi studia’, e pure la mi’ mamma – io non ne parliamo, ero contenta matta. Ora mi fa ‘mpressione pensa’ che son stata piccina invece come tutti e ci so’ stata sì e ho fatto il primo giorno di scuola, e il secondo e il terzo. Mi piaceva impara’, a scrive le lettere prima e poi i pensieri, che li dicevano pensierini ma invece erano pensieri come quelli dei grandi, via, che o si pensa o un si pensa e quando si fan le cose senza pensa’ e vengon male, storte, strinte, invece via via che imparavo a mettere per iscritto quello che pensavo a me sembrava che era come pensare di più, o pensare meglio. E così dopo la prima ho fatto la seconda, e la terza – ogni anno gli esami, che a certe della mi’ classe e gli mettevan paura invece a me niente, e di che dovevo avere paura che quello che sapevo lo sapevo e quel che non sapevo no, c’era punto da ‘nsiste e picchia e mena, si faceva l’esame e l’anno dopo si riprincipiava e c’eran cose nòve, come la storia che mi garbava tanto e la geografia meno, che non l’ho mai capito a che serviva impara’ quei posti lontani che in casa e chi aveva mai viaggiato, ma nemmeno pensato e di viaggia’ e infatti un si viaggiò, per questo dico io, la geografia è cosa da signori.
O allora, ero arrivata al quart’anno che la mi’ mamma si prese un brutto male, ma brutto che di più a quei tempi un so nemmeno e se si poteva, noi si diceva la tisi ma c’è chi la dice tibicì. È lo stesso, alla fine: si tossisce come i cani, che pare gli si stracci la gola e più giù, i polmoni e giù, giù, fino alla vita. Col mal di vita s’arriva a sputa’ sangue e poi si mòre, e infatti così è andata. Successe che il mi’ babbo, che era muratore a Montenero al collegio americano, un so se sapete dov’è che dico ma poi è uguale, cadde dai camminamenti fòri del quinto piano e la mi’ mamma, che era andata a fa’ legna, appena l’avvertinno corse tutta sudata com’era senza nemmeno passa’ da casa a prendisi uno scialle e per arriva’ all’ospedale sempre di corsa senza fermassi si pigliò un malanno che poi un ebbe tempo e di curallo e così finì che la mandarono al sanatorio, mentre il mi’ babbo pian pianino si rimise i colori, anche se continuò a camminare sempre un poco storto e da vecchio col bastone. Fatto sta che a lavoro lo rivollero anche perché noi s’era quattro figlioli e qualcuno ci doveva dar da mangiare e da vestissi e tutto, e con la mamma al sanatorio ci mancava solo che anche il mi’ babbo si metteva steso. A Livorno diciamo “ulli ulli, chi li fa se li trastulli”, i figlioli dicono, però c’era poco da trastullassi visto che quello è stato l’ultimo anno che sono andata a scuola. Una cosa che ancora mi fa male a pensacci anche se pensacci un serve più e infatti un ci penso, ora che lo dico mi torna però via, è andata com’ha voluto anda’. E allora.
Così la mi’ mamma era chiusa in sanatorio e a noi bimbi e un ce la facevano vede’ perché dice che era contagiosa, pericolosa, e sarà anche stato vero, però era triste passa’ le giornate, le settimane e i mesi senza un bacino, senza sentilla canta’ che lei cantava tanto, senza sape’ che c’era e che era la tu’ mamma. La mattina il babbo si levava che un c’era ancora il sole e a noi quattro figlioli preparava la polenta, poi la rovesciava sul tavolo in quattro parti distinte e col dito su ognuna faceva la lettera del suo nome, così noi quattro un s’aveva a letica’ di qual è la mia e quale la tua e in più si capiva che sape’ legge serviva a mangiare e a stare in pace, almeno io la vedevo così. Quell’anno della scuola e lo finii, che le cose a metà se si può un si lasciano, ma sapevo che se la mamma non guariva era anche l’ultimo e che la mamma non guariva lo sapevo da me senza dottori.
Quello fu anche l’anno che mi cresimai, che a scuola usava così, toccava a tutti, e il babbo mi portò al sanatorio dalla mi’ mamma. Io volevo abbraccialla e danne  i baci ma un si poteva, solo da fòri le potevo parla’, anche se a parla’ un ci riuscimmo che come e ci vedemmo ci si mise a piangere un po’ tutti. Pensa’ che noi figlioli e si sarebbe dato pe’ vedella mentre i parenti grandi, che potevano chiede il permesso di visitalla, un ci andarono mai, tanto che quando lei mori’ un volle nemmeno un funerale. “Un m’hanno vista viva, un mi vedranno morta”, disse. Ah, un ci s’avrà avute tante cose in casa ma orgoglio un ce n’è mai mancato, n’ave’ paura. Morta e seppellita la mi’ mamma tutti, gli stessi che al sanatorio un ci avevano messo piede a figurarsi, presero a dire al mi’ babbo che si doveva riammoglia’, che quattro bimbini come li tirava su – la più grande era la mi’ sorella, quella di testa lenta; poi c’ero io che andavo appunto in quarta e poi i due maschietti, Dino e Eugenio – e che una donna in casa e ci voleva, ma lui niente: “La mi’ Maria l’ho sposata d’amore”, diceva, “quando ne trovo un’altra come lei? E i figlioli son miei, no delle suore o dei preti”, diceva sputando in terra e chiudendo così il discorso; ma non le bocche di quelli che in capo a un giorno erano daccapo: “E come li mandi in giro i tu’ figlioli, o vestili ammodino” e forse fu anche per questo che quando si capì che con la scuola avevo chiuso decisi che avrei appreso a cuci’. Perché che cos’hai nella pancia da fòri non si vede, e per lavassi serve l’acqua e il sapone e lo sanno fa’ tutti, ma per vestissi ammodino e tiranne su i soldi per la pigione e il resto serve una sarta, che a me sembrava pure un bel lavoro – se penso al babbo che si spaccava le mani a spacca’ pietre e la schiena a vola’ giù dai piani alti, o alla mamma che aveva voglia a canta’, la vita l’ha passata con le mani nell’acqua a lava’ i panni dei signori e io quello no grazie, un lo volevo fa’. Così andai da una vicina che aveva una figliola poco più grande di me che sapeva cucire e già iniziava a lavorare e m’avrebbe insegnato. In fondo era come ricominciare una scuola solo che questa volta la maestra l’avrei avuta tutta per me e quasi della mia età. Ma a furia di ricominciare e mi son stancata, prima o poi ve la racconto ma non ora.

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In ogni caso nessun rimorso
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2 risposte a ADA L’IMPAVIDA – Sei / È fatta

  1. alfredo ha detto:

    Mia mamma sarte aveva una strana allergia verso le tasche, mi cuciva i pantaloni ma non mi faceva mai le tasche, che rabbia!

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