LIBRIC-À-BRAC / QUATTRO

C’era una volta in Italia

È così facile odiare. Ne è capace pressoché chiunque: si odia l’altro perché è altro, non assimilato né assimilabile a sé ─ non più, non ancora ─, qualsiasi cosa sé voglia dire o dica, qualsiasi cosa sé taccia e perché, qualsiasi cosa sia un sé posto che un sé esista. È una scorciatoia: non so come affrontarti, non so come trattarti, non so come rivolgermi a te per cambiarti o far sì che tu sia sempre come ora, come decido che tu sia, come voglio che tu sia e rimanga, come pretendo che tu diventi, come esigo: che tu smetta di essere tu o, meglio, non iniziare nemmeno a pensare di esserlo. Ti odio perché voglio che tu non esista, perché se esiste tu non esiste io, perché io senza io sono niente. Allora è meglio che sia niente tu.

Non necessariamente è ostile, l’odio, dato che l’ostilità presuppone un conflitto e il conflitto presuppone ─ implica ─ l’altro, pur non ammettendolo né riconoscendolo spesso come tale. Il conflitto racconta, l’odio mette a tacere. Impedisce di crescere.

Margherita Scarabosio, infatti, non è cresciuta: perché, più ancora e prima della coscienza inculcatale di non poterlo fare, non sa di volerlo. Come può crescere chi non ha corpo, chi del corpo conosce solo la negazione, la violazione, la personificazione del delirio d’onnipotenza altrui? Quante siamo Margherita! Quante lo siamo state, quante abbiamo rischiato di esserlo. E quante volte siamo andate vicine a imboccare la scorciatoia, rispondendo a progetti d’annientamento con altro annientamento (spesso senza progetti) per cecità coatta, perché il dolore ci aveva ammutolite e il silenzio assordate.

Margherita è così, cieca, sorda, muta: suo padre, il generale informe, il padre che ci si augurerebbe assente (e se Margherita avesse saputo formulare un augurio, un sogno, un desiderio, sarebbe forse stato questo), sua madre, fantoccio-feticcio, bambola voodoo che ─ tentando un’impossibile, in termini, inappuntabilità ─ si copre il capo con la parrucca che la sterminerà, strumento d’apparenza e di morte, suo fratello, formidabile figura della più deragliata normalità, l’hanno resa così. L’hanno resa niente. Figlia di questa dolente e crudele trinità, figlia dell’ordine ─ l’ordine che sa infilzare le farfalle colpendole al centro d’un ventre che pure ha pulsato per immobilizzarle nell’eternità corrotta del collezionismo (di figli, di punizioni, in una fase anale senza fine) così che altri ne ammirino l’evidente bellezza e la crudeltà sottesa, dunque il proprio potere ─ Margherita è e non è, anzi, per almeno due terzi del romanzo Margherita è ciò che non è. Le Brigate Rosse, apprendiamo quasi subito, nel 1986 ne han fatto un’orfana: dopodiché s’adagiano sullo sfondo della trama e mai più ne riemergeranno. Diventano parte del paesaggio di questa Italia, una parte con la quale pochi narratori sembrano disposti a voler fare i conti. Romanzo non sul terrorismo ma sul terrore, dunque terribilmente politico, Sangue del suo sangue s’avvolge e si svolge a spirale tra colpi di scena, colpi bassi, colpi di genio e colpi al cuore: tra epigoni della Storia mossi, ancora una volta, da un odio di terza mano, pasticciato, inesperto, e repellenti revisionisti, spacciatori di un odio destinato a perdersi altrettanto, e a perdere; e Margherita, nell’odio cresciuta senza crescere e dall’odio oggi circondata (trovandosi, per acrobazia narrativa, a presiedere un improbabile “Comitato di sostegno ai famigliari delle vittime delle BR”: lei, che sostegno non sa che cosa sia, lei cui famigliare è solo l’orrore, lei vittima che vittima non si dice, e in questo orizzonte ottico sta una delle chiavi della sua presumibile liberazione), guarda il mondo di sbieco, non individua, fraintende.

È così buona, Margherita, da sembrare stupida.

È così stupida, Margherita, da sembrare buona.

Più d’una volta avrei voluto entrare nelle pagine e scrollarla, gridarle “Come puoi non vedere?”. Che chi ti circonda ti circonda, appunto, ti vuole con le mani in alto, arresa per segregarti ancora e ancora e ancora. Ti stanno usando, ti lodano per farsi beffe di te e del tuo dolore: già, ma tu non lo senti, il dolore, tu non senti dolore né altro. Che rabbia mi fai.

Invece.

Invece dietro Margherita c’è Gaja Cenciarelli, che sa che cosa fare ─ e che cosa far fare ─ ai propri personaggi, che sa come portare la storia dove ha deciso, che sa di Margherita cose che ancora non ci è dato vedere, che sa come muoversi nella scrittura limandola, asciugandola, perfezionandone il detonatore e rendendo ogni frase una carica di dinamite: e allora giù la testa, leggi e lasciami fare, lasciami andare dove dico io, come dico io, fino alla fine.

E la fine arriva: Margherita rompe lo specchio, spacca il piano sequenza, decide di volar via. Non sappiamo se ce la farà, quali passi seguiranno i primi liberati che compie e dove la porteranno: ma, nel clangore del camion tritarifiuti che appare nell’ultima pagina ─ come già nell’ultima scena del film che l’ha segnata nell’adolescenza e che da allora mille volte s’è proiettata nella mente per resistere fino ad arrivare a dirsi che la violenza, dopotutto, è solo violenza, ottusa, stolta, inetta: cruda, e crudele ─ sentiamo catene abbandonarle sferragliando le caviglie. Alla paralisi dell’odio Margherita risponde con il conflitto cui si lascia andare, entrando nella città con occhi aperti; la durezza battente che ci ha accompagnate nella lettura lascia gloriosamente il campo, in levare, a una dolcezza che smarrisce e nella quale, finalmente, ritroviamo il respiro.

Gaja Cenciarelli, Sangue del suo sangue, edizioni nottetempo (452 pagine, 16.50 €) 

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In ogni caso nessun rimorso
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